Novità normative sostanziali del diritto ‘emergenziale’ anti-Covid19 in ambito contrattuale e concorsuale
Con la relazione tematica n. 56 dell’8 luglio 2020 la Suprema Corte ha analizzato l’impatto che la normativa emergenziale anti-COVID19, principalmente espressa in forma di Decreto-Legge, ha avuto sui rapporti contrattuali e in ambito di crisi d’impresa.
Con riferimento al mondo contrattuale, la relazione evidenzia come la pandemia abbia colpito principalmente la fase esecutiva di contratti sinallagmatici, avendo la stessa alterato, e in certi casi stravolto, l’equilibrio delle prestazioni contrattuali esistente nella fase genetica del rapporto, vanificando così la causa del contratto stesso.
La relazione fa quindi il punto sugli istituti giuridici già noti nel nostro ordinamento e astrattamente invocabili dai contraenti a propria tutela durante la crisi pandemica, nonché sull’efficacia e sull’ambito applicativo dei provvedimenti governativi volti a mitigare la proliferazione di contenziosi.
Tra i possibili rimedi alle tensioni economico-relazionali generate dal lockdown si annoverano le norme codicistiche sull’impossibilità totale sopravvenuta di cui all’art. 1463 c.c. Tuttavia, la relazione segnala che le tensioni contrattuali dovute alla pandemia difficilmente possono rientrare in questa fattispecie, invocabile solo nel caso in cui la prestazione dedotta in negozio sia completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile. Infatti, viene ricordato che le obbligazioni pecuniarie non divengono mai oggettivamente impossibili, ma solo soggettivamente inattuabili. Tale inattuabilità soggettiva ben potrebbe venire meno una volta terminata la fase emergenziale.
Infatti, si segnala che, salvo la possibilità di sospendere i muti, la legislazione anti COVID19 non ha modificato una delle pietre miliari della disciplina contrattuale italiana per cui l’impotenza finanziaria del debitore non genera l’impossibilità della prestazione in quanto “l’eventuale crisi di liquidità del debitore è un rischio posto a carico dello stesso”.
La relazione comunque evidenzia che l’estinzione dell’obbligazione può essere dovuta all’essenzialità del termine contrattualmente stabilito o naturalmente connotato per l’adempimento o al venir meno dell’interesse del creditore ad esigere la prestazione o ancora al protrarsi dell’inadempimento sino a quando il debitore non può più essere obbligato a eseguire la prestazione ai sensi dell’art. 1256 c.c.
Maggiormente invocabile sembrerebbe essere la disciplina in tema di impossibilità parziale, ex art. 1464 c.c., estesa dalla Suprema Corte anche ai casi in cui ad essere divenuta impossibile sia non solo l’esecuzione della prestazione da parte del debitore, ma anche l’utilizzazione della stessa per cause non imputabili al creditore.
È interessante che la relazione evidenzi come i principi sull’impossibilità sopravvenuta difficilmente possano trovare applicazione nei contratti di locazione (anche di beni produttivi) rimanendo il godimento del bene possibile, anche se i benefici che il conduttore ne trae ne risultano momentaneamente affievoliti. Pertanto, la Corte segnala che per correggere l’alterazione del possibile squilibrio contrattuale bisognerebbe fare affidamento su “una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico”.
Vengono poi esaminate le norme sull’eccessiva onerosità sopravvenuta, applicabili a mente dell’art. 1467 c.c. ai contratti di durata e ai contratti con prestazioni differite, che sembrano attagliarsi maggiormente alle tensioni contrattuali create negli scorsi mesi dalle misure restrittive anti COVID19 in tutti i settori dell’economia. La disposizione codicistica prevede che la parte che deve eseguire una prestazione “divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili” può domandare la risoluzione del contratto. La relazione rammenta che tale istituto è un rimedio che “si ricollega al sopraggiungere di un evento esterno […], straordinario sul piano oggettivo, impronosticabile e inevitabile su quello soggettivo, in quanto estraneo a qualsiasi ragionevolezza previsionale”.
Tale istituto non si sovrappone a quello dell’impossibilità sopravvenuta, infatti pur potendo essere gli effeti sul contratto gli stessi, l’istituto dell’eccessiva onerosità ha la funzione di compensare significative alterazioni economiche non prevedibili nella fase genetica del rapporto.
E’ interessante evidenziare come, sebbene la Suprema Corte ritenga tale istituto astrattamente applicabile alle tensioni dovute all’epidemia, la stessa scriva che tale istituto “finisce per fare terra bruciata delle relazioni d’impresa come di quelle fra privati cittadini”. In un’ottica che non si focalizza sul singolo contratto, ma si estende all’intero rapporto, la relazione mette in dubbio l’effettiva utilità di tale strumento volto a rimuovere il vincolo contrattuale in maniera radicale.
La relazione analizza inoltre l’impatto delle novità sostanziali introdotte dalla normativa anti-COVID19 in materia di inadempimento contrattuale dovuto alla pandemia al fine di, perlomeno in via transitoria e con l’auspicio di un ritorno alla normalità, congelare le forti tensioni che lo shock pandemico ha instillato nei rapporti contrattuali.
La disposizione maggiormente interessante in ambito contrattuale sembra essere l’art. 91 del D.L. n. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) nella parte in cui dispone: “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi versamenti”.
Viene comunque evidenziato che non si tratta di una norma che esclude a priori e incondizionatamente la responsabilità del debitore. In questa logica si evidenzia che comunque la responsabilità rimane in capo al debitore che, seppur limitato dalle norme di contenimento, avrebbe potuto adempiere adoperandosi secondo ordinaria diligenza; così come in capo al debitore che per una mera percezione soggettiva del pericolo è rimasto inadempiente.
La norma è comunque molto significativa perché attribuisce al Giudice di merito il compito di valutare sempre se il debitore – sul quale grava il relativo onere probatorio – sia rimasto inadempiente a causa delle misure di contenimento stante l’ordinaria diligenza applicata dallo stesso al fine di “rimuovere gli ostacoli creati all’esatta esecuzione degli impegni contrattuali assunti”.
La relazione evidenzia che il creditore non rimarebbe comunque privo di tutela, potendo lo stesso sollevare l’eccezione di inadempimento per sospendere l’esecuzione della sua prestazione. Lo stallo del rapporto contrattuale persisterebbe sino a quando, terminata la circostanza che vi ha dato origine, il debitore non dia nuovo impulso al rapporto offrendo l’esecuzione delle proprie obbligazioni.
Tuttavia, viene evidenziato come l’impostazione dell’art. 1467 c.c. è tale per cui soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento, e non anche la parte sfavorita, possa evitare la risoluzione “offrendo di modificare equamente le condizioni de contratto” . Quindi alla parte sfavorita non resta che chiedere lo scioglimento del vincolo contrattuale, sperando che l’altra parte abbia una visione di lungo periodo e nell’interesse della relazione commerciale proponga di emendare le condizioni contrattuali.
Emerge dalle righe della relazione l’auspicio della Suprema Corte affinché le controparti, data l’eccezionalità e generalità della crisi creata dalla pandemia, agiscano in maniera responsabile: “l’emergenza non si tampona demolendo il contratto […] cruciali appaiono l’attenuazione o il ridimensionamento del contenuto di questa [l’obbligazione]”.
La relazione infine evidenzia come la vera chiave di volta per la soluzione delle tensioni contrattuali sia da rinvenire nei principi di buona fede e correttezza che ai sensi degli art. 1175 e 1375 c.c. devono costantemente guidare le parti in tutte le fasi del rapporto contrattuale: negoziazione, conclusione, esecuzione e interpretazione.
Infatti, sebbene nel nostro ordinamento non esista uno specifico obbligo alla rinegoziazione e sebbene l’art. 1467 c.c. riconosca la facoltà di ricondurre il contratto ad equità solo ad una parte, è stato evidenziato che la buona fede e correttezza applicata alla fase di attuazione delle previsioni contrattuali – in un contesto in cui sono stravolte le considerazioni di partenza – vedrebbe inevitabilmente la rinegoziazione “come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute”.
Viene infine sottolineato come la necessità di rinegoziare sia maggiormente avverita nei “contratti relazionali”, tipici del mondo dell’impresa in cui si intessono relazioni di valore, con i quali si creano dei rapporti di durata improntati ad una leale e proficua collaborazione. In questo contesto, proprio per rispettare l’originario equilibrio contrattuale, la sopravvenuta alterazione dello stesso dovuta a circostanze eccezionali non determina la risoluzione del rapporto, bensì la necessità che lo stesso prosegua con i necessari aggiustamenti.