Royalties infragruppo a rischio contestazione in assenza di documentazione idonea e dati tecnici
La Corte di Cassazione con sentenza del 5 aprile 2019 n. 9615 ha ritenuto non congrua la percentuale di royalties versate da una società italiana alla controllante svizzera a fronte dell’utilizzo del marchio, rilevando la violazione dell’art. 110 comma 7 (e 9 TUIR, per espresso rinvio), così ritenendo superiori al valore normale i costi dedotti dalla società italiana a titolo di royalties dovute nel 2005 alla controllante nella misura del 3,5% del fatturato di vendita. La licenziataria, inoltre, era tenuta al pagamento di un’ulteriore percentuale dell’1,6% sulle vendite, quale contributo sugli investimenti di promozione e sviluppo dell’immagine sostenuti dalla società licenziante. La suddetta percentuale veniva ritenuta non congrua rispetto al valore normale, in relazione al rapporto tra le società e al contenuto della controprestazione, e veniva rideterminata nella misura del 2% sulla base dei parametri prescritti dalla (ormai datata) Circolare Ministeriale n. 32/80.
La contribuente impugnava l’avviso con ricorso, accolto in primo grado dalla Commissione Tributaria Provinciale di Como, la cui sentenza veniva poi riformata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Ricorreva quindi in Cassazione la controllata italiana lamentando la violazione degli artt. 39 comma 1 e 40 DPR 600/1973 e quindi l’illegittimo ricorso all’accertamento induttivo in assenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, nonché lamentando l’omessa motivazione e l’omesso esame dei documenti prodotti dalla società medesima.
La Suprema Corte, ritenendo le censure addotte dalla contribuente infondate, evidenziava che la CTR correttamente aveva ritenuto sussistenti i presupposti per l’applicazione dell’art. 110 comma 7 TUIR, rilevando elementi quali una situazione di controllo societario e il superamento del valore normale nella specifica transazione in esame. Essendo tale disciplina finalizzata alla repressione di politiche di pricing dirette allo spostamento d’imponibile fiscale a favore di quelle entità del gruppo soggette a normative domestiche più favorevoli, la prova a carico dell’Ufficio attiene non già il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, quanto piuttosto il mero ricorrere delle condizioni che consentano di “innescare” la normativa domestica più volte citata (transazioni infragruppo condotte ad un valore diverso da quello normale). In questi casi, secondo la Corte di Cassazione, spetta al contribuente l’onere di dimostrare con prova contraria ex art. 2697 cc che tali transazioni siano intervenute a valori di mercato, e che non siano state regolate da condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili sul libero mercato.
La Cassazione rileva che la disciplina in materia di transfer pricing mira a sostituire il valore soggettivo dell’operazione con quello normalizzato (laddove difforme da quello soggettivo), e per far ciò occorre guardare anche alla strategia complessiva dell’impresa per valutare se operazioni apparentemente antieconomiche non siano poste in essere per conseguire altri benefici. In questi casi è comunque necessario che le varie operazioni rispondano a criteri di logica economica improntati al rispetto del regime di libera concorrenza. Pertanto, se i corrispettivi sono manipolati a danno del Fisco devono essere sostituiti dal cd. valore normale dei beni o servizi oggetto di scambio all’interno del gruppo.
Muovendo dai criteri stabiliti nella CM n. 32/80, essendo stata verificata la natura “intercompany” della transazione, e appurato che la stessa non sarebbe stata condotta a valore normale, e nonostante la documentazione prodotta dalla licenziataria italiana nei primi due gradi di giudizio, la Corte ha confermato a rettifica operata dall’Ufficio, per cui il royalty rate del 3,5% (oltre all’1,6% a titolo di contributo marketing) non poteva ritenersi congruo, e veniva rideterminato nel più basso valore del 2%.
