Direttiva PIF: ampliato il novero dei reati presupposto ai sensi del D.Lgs. 231/2001

Il 15 luglio 2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. 75/2020, finalizzato ad adeguare la disciplina penale italiana in attuazione della direttiva (UE) 2017/1371, cosiddetta direttiva PIF – protezione interessi finanziari, per la lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.

La direttiva, del 5 luglio 2017, che sostituisce e aggiorna la precedente Convenzione PIF del 26 luglio 1995, già recepita dall’Italia con la Legge 300/2000, prosegue l’intervento di armonizzazione del diritto penale degli Stati membri nella dichiarata prospettiva di completare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione in relazione a condotte fraudolente ritenute maggiormente lesive a livello comunitario.

Tra le principali novità portate dal provvedimento delegato merita segnalazione un deciso allargamento dell’elenco dei reati tributari per i quali anche le società possono essere chiamate a rispondere.

In quest’ottica il decreto attuativo della direttiva PIF modifica e integra il catalogo dei reati tributari contemplati dal D.Lgs. 231/2001, riconducendovi ora anche i delitti di dichiarazione infedele, di omessa dichiarazione e di indebita compensazione, che erano rimasti esclusi dalla recente riforma di cui alla Legge 157/2019. A queste fattispecie criminose si aggiungono, inoltre, il delitto di frode nelle pubbliche forniture, la frode in agricoltura ed il contrabbando, ed alcune fattispecie delittuose contro la pubblica amministrazione quando ne derivi un danno agli interessi finanziari dell’Unione europea.

Non meno rilevante è l’introduzione, ad opera del Decreto pubblicato ieri, di un’ipotesi di rilevanza penale del tentativo per i delitti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del D.Lgs. 74/2000: il nuovo comma 1-bis aggiunto all’art. 6 del D.Lgs. 74/2000, infatti, dispone che la non punibilità a titolo di tentativo non si applichi nei casi di sistemi fraudolenti che abbiano carattere di internazionalità – vale a dire nel caso di reati commessi anche in parte nel territorio di un altro Stato membro – al fine di evadere l’IVA a condizione che il danno complessivamente arrecato sia agli interessi degli Stati membri coinvolti, sia a quelli dell’UE, superi i dieci milioni di euro (valore da intendersi riferito alla sola imposta evasa).

 

Alessandro Poli